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Essere orfani speciali. Spiegano le psicologhe

«Un trauma devastante. Un tema complesso. La strada da fare è molto lunga»

di Lara Minelli, 28/11/2021

L'approfondimento - Inchiesta per Executive Master RCS Academy - Corriere della Sera

Foto: Pixabay

Trauma nel trauma. Dolore su dolore. Perdita su perdita. Quasi un gioco di parole, ma con i crismi della realtà. È il difficile domani di chi resta e deve ricominciare. A vivere un dramma che non è normale sotto ogni aspetto: psicologico, sociale, economico. Anche nella più brutta favola un papà non uccide mai la mamma. L’amore tra due genitori può finire, ma per un figlio resteranno sempre la mamma e il papà. E questo vale per tutti, ma non per loro. Lo Stato li etichetta “orfani speciali, vittime di femminicidio”. Paroloni, loro sanno solo che sono figli della vittima e dell’assassino insieme.


Tra odio e dolore. Rabbia e sensi di colpa. Incubi e paure. Silenzio ed omertà. Soli e dimenticati. Come supplire un vuoto incolmabile? Come ritrovare una serenità e un equilibrio? Come accettare che il padre non ha pensato a loro? Rispondono le psicologhe: Sara Pretalli, Cooperativa Iside Antiviolenza e D.i.Re e Vincenza Cinquegrana, Università Seconda di Napoli e Centro Studi Vittime Sara (CESVIS).


L’INTERVISTA

Dottoressa Cinquegrana, ha lavorato a fianco della celebre criminologa e psicologa italiana, Anna Baldry. La prima a portare alla luce il fenomeno degli orfani speciali con progetti come Switch-off (2011-12). Com’è nata l’idea e perché la Baldry conia il termine “orfani speciali”?

«Ho lavorato con Anna per nove anni. Abbiamo elaborato progetti, un libro (Gli orfani speciali, ed. FrancoAngeli, 2017), un Centro Studi (CESVIS) nel Dipartimento di psicologia dell’Università Seconda di Napoli e linee guida del fenomeno. Un’illuminazione simile poteva averla solo una mente brillante come Anna. Legge un articolo sugli orfani dell’11 settembre e si chiede: “E i figli delle donne vittime di femminicidio?” Esistono, ma sono vittime invisibili. “Speciali” perché speciale la condizione quando diventano orfani: è impensabile per un figlio perdere le due figure di attaccamento in quel modo».


Anna Baldry è partita dalle domande: “Chi sono? Dove sono? Quanti sono?” Oggi si può rispondere?

«Quantificare è un problema enorme. Non si riesce a dare un numero preciso e condiviso per le vittime di femminicidio, figuriamoci per gli orfani. Manca una base comune sulla tipologia da adottare. Possiamo solo fare delle approssimazioni verosimili, basandoci sulla media del tasso di natalità moltiplicato per il numero dei femminicidi: per esempio il dato dell’EURES 2019 stima 68 orfani al Nord Italia (EURES: +57% la percentuale dei femminicidi al nord). A livello nazionale oggi il dato oscilla tra i 2000 e i 2700 orfani».


Nei campioni presi in esame avete riscontrato una fascia d'età prevalente?

«No, il numero dei minori e quello degli adolescenti è abbastanza simile. Abbiamo invece notato differenze nelle conseguenze psicosomatiche in base al genere: i maschi adottano spesso comportamenti aggressivi, le femmine tendono più a somatizzare, in particolare con disturbi dell’alimentazione».


Quali conseguenze comporta un trauma simile?

«Sono tragedie con ripercussioni in ogni ambito: psicologico, sociale ed economico. Per il primo variano molto in base all’età. Comuni i sensi di colpa, la paura, gli incubi, la difficoltà a legarsi alle nuove figure di attaccamento. Sul piano sociale possono cambiare il rendimento scolastico e le amicizie. C’è anche l’aspetto stigmatizzazione sociale, poiché si ritrovano figli della vittima e dell’assassino insieme. Molti per esempio manifestano la necessità di cambiare cognome, per evitare il rimando all’identità paterna. Gravi anche le ripercussioni a livello economico: crescere un orfano comporta una serie di spese, a cui non tutte le famiglie affidatarie possono far fronte».


Dottoressa Pretalli, cosa accade all’orfano nell’immediato? Come convivere con il dolore?

«È un trauma devastante e totalmente destabilizzante. Un senso di vuoto di una perdita incommensurabile»

«Diventa fondamentale fargli sentire fin da subito la presenza di qualcuno. Fare in modo che si ricrei una routine prevedibile e stabile, che non si limita solo alla scuola, ma che possa abbracciare più attività ludico-creative o sportive. Questo vale soprattutto per i più piccoli. Un’attenzione e sostegno a prescindere dall’età: non pochi gli adolescenti che hanno pensato al suicidio per aver perso ogni ragione di vita. Serve tanta assistenza fin da subito. Un lavoro congiunto e personalizzato per ogni orfano».


Come dare un senso all’accaduto? Quale senso può esserci?

«Un senso non c’è. Si parla piuttosto di far accettare e superare un lutto nella sua drammaticità. Aiutare l’orfano a rileggere la sua storia in una cornice più ampia».

«La violenza di genere come fenomeno socio-culturale. Il femminicidio come atto estremo di assoggettamento e annientamento dell’esistenza per l’essere femminile»

Solitamente si tratta di orfani che hanno già assistito ad episodi di violenza tra le mura domestiche, a volte anche testimoni dell’evento delittuoso. Come superare il trauma?

«Essere presente all’omicidio della madre può causare disturbi gravissimi. Non è sempre facile determinare in che misura l’orfano abbia assistito. Anche trovarsi nella stanza accanto nel momento del misfatto può generare profondi vissuti di colpa e paura».


Come gestire l’identità: essere figlio dell’assassino e della vittima e magari rivedersi fotocopia del padre allo specchio?

«È una tematica identitaria complessa, il “figlio del femminicidio”. A livello psicologico possiamo lavorare su due binari: il primo distanziare l’orfano sia dal padre che dalla madre, per far emergere l’uomo o la donna che rappresenta, sviluppando idee e valori autonomi e comportamenti differenti rispetto a quelli adottati dai genitori in vita. Il secondo prendere le distanze dalla figura paterna, talvolta intervento prioritario e urgente».


La figura complessa del caregiver, la famiglia affidataria, solitamente identificabile nei nonni o negli zii. Come esserci per l’orfano, quando loro stessi devono elaborare il lutto?

«Non è semplice, la famiglia deve trovar spazio per accogliere l’orfano in un momento difficile. Non è detto che in quel momento il nonno o la zia siano la persona più adatta. Loro stessi hanno bisogno di sostegno psicologico, oltre che economico. Crescere un orfano in quel momento comporta molte spese. Dargli spazio significa anche a livello ambientale: l’orfano lascia la casa d’origine, deve trovare un nuovo ambiente che lo accolga e dove possa ricrearsi una quotidianità. Molti caregiver tendono ad assumere un atteggiamento iperprotettivo nei confronti dell’orfano, relegandolo a un ruolo di “malato”. Altri al contrario dopo il primo periodo sottovalutano: subentra la stanchezza e capita anche l’esasperazione della gestione di una situazione troppo complessa».


Dottoressa Cinquegrana, quanto dire la verità è importante?

«La strada della verità è quella giusta, da raccontare ovviamente con le parole adatte all’età dell’orfano. Non dirla crea un danno molto pericoloso. Le famiglie spesso dimenticano che questi orfani hanno già assistito, se non all’accaduto, agli episodi di violenza prima. È un cambiamento radicale che percepisce anche un bambino. E con questo aggiungo l’importanza di non etichettare il genitore “bravo” e quello “cattivo”: sarà l’orfano ad elaborare negli anni la sua idea».


La dottoressa Baldry parlava del progetto di creare un forum per gli orfani. Oggi esiste?

«A livello capillare esiste solo come progetto. Un’attuazione manca ancora. Nel locale invece alcune istituzioni del terzo settore o Centri Antiviolenza si sono mossi in autonomia e hanno creato una rete di orfani e di caregiver».


Possiamo dire ora di conoscere il fenomeno degli orfani speciali o restano ancora una minoranza dimenticata?

«La Legge n.4 2018 è stata una “boccata di aria fresca”. Nella prassi però si sono rivelate diverse problematiche a livello burocratico. È troppo recente per valutarne l’efficacia. Sicuramente rispetto a qualche anno fa c’è più informazione, ma mancano ancora protocolli standardizzati generali e una formazione dedicata ai soggetti coinvolti.

«Non abbiamo in pugno la situazione, siamo ancora in una fase preparatoria»

Anche se qualche passo si è fatto, l’orfano rimane ancora nell’ombra. La strada si preannuncia molto lunga».

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