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Femminicidio: ventiquattro anni dopo Giuseppe racconta l’inferno dentro casa e un vuoto che resta

Faccia a faccia con il padre: «Mi hai rovinato la vita»

di Lara Minelli, 28/11/2021

La storia - Approfondimento inchiesta per Executive Master RCS Academy - Corriere della Sera


Foto: Giuseppe, Facebook

Di storie di orfani di madre per un gesto folle di un padre assassino è già stato pubblicato qualcosa, anche se non molto. Per l’orfano e la famiglia della vittima è un dolore troppo forte. Perché condividere con il mondo intero? Sembra sempre lo stesso copione: «Padre che uccide la madre, perché non accetta la separazione. La donna lascia dei figli». Una via di mezzo tra un refuso del delitto d’onore e quello che i media hanno coniato come “delitto passionale” e che nella conoscenza comune ha assunto l’etichetta “femminicidio”. Gli stessi tratti: l’epilogo con il misfatto, la disperazione per il vuoto, la rabbia per le tante mancanze, a partire dallo Stato. Ma non solo, c’è molto di più. Ogni orfano ha una storia. L’ho capito quando ho incontrato Giuseppe.


Oggi Giuseppe ha quarantacinque anni, è felicemente sposato da più di quindici e tutti i giorni salva le vite («Sognavo di fare il chirurgo, ma non potevamo permettercelo. Volevo restare in ambito sanitario, fare qualcosa per gli altri. E ce l’ho fatta: non sarò il medico, ma gli sono accanto da strumentista in sala operatoria. Ironia della sorte: io le vite non le ammazzo»).


«Un dolore pazzesco che non passa. Quando è morta mia madre avevo diciotto anni. Mia sorella ventiquattro e mio fratello ventisette. Il giorno dopo il funerale dovevo partire in servizio militare, ma sono stato fortunatissimo: mi hanno rimandato di un mese. Non dimenticherò mai la sensazione di quel giorno, la stessa che rivivo ancora oggi quando temo un abbandono: il vuoto divora – sospira, cala la voce – manca la terra sotto i piedi. Pensi di farcela, ne hai già passate tante. Ma ti rendi conto che da solo non puoi».


Oggi dopo ventiquattro anni Giuseppe condivide il suo passato: «Ho iniziato a parlarne solo adesso, prima non riuscivo. Quando la gente mi chiedeva dei miei genitori la risposta era sempre la stessa: “Sono morti in un incidente d’auto”. Dire la verità significava rivivere un passato che volevo rimuovere. Ora non sono più un ragazzo, ho il mio background alle spalle. Con la mia storia spero di poter dare un messaggio ai tanti orfani come me».

«Orfani si resta, anche quando hai quarantacinque anni»

Da tre anni si rivolge ad uno psicologo: «Sono traumi che non puoi rimuovere, riaffiorano tutti i giorni, nelle relazioni soprattutto. Avere fin da subito un’assistenza psicologica sarebbe stato di grande aiuto. Avrei superato tante ansie e paure, ma non potevo permettermelo. Avevo un mutuo da pagare: due anni prima di morire mia madre aveva comprato una casa, sapeva che mio padre l’avrebbe ammazzata e voleva lasciarla a me. Lavoravo giorno e notte, sabato e domenica. Nessuno mi ha mai chiesto se riuscivo ad arrivare alla fine del mese. Accadde e scompaiono tutti. L’unica telefonata che ho ricevuto è stata dopo il funerale. Era il direttore della banca».


Sorride Giuseppe, appare sereno. Non immagineresti mai che quella persona buona e solare abbia convissuto con tanto orrore e sofferenza. «Mio padre era una mente diabolica: il dottor Jekyll e Mr. Hyde. Con gli altri era la persona più brava e generosa del mondo. Organizzava cene con gli amici, comprava regali ai loro figli. Un grande lavoratore e un bravo papà. Per i miei cugini era lo zio d’America che scendeva da loro in Sicilia con la bella macchina, la roulotte e poteva permettersi pure le vacanze. Eravamo la famiglia Mulino Bianco, ammirati ed invidiati da tutti».

«Nessuno sapeva che casa nostra era l’inferno»

Rivolgendo ogni tanto lo sguardo in alto, Giuseppe descrive la paura e la soggezione verso un padre violento («Io ero il più piccolo, ero fortunato. Con la mamma e mio fratello maggiore diventava una bestia, li massacrava») e assente («Non ha mai fatto nulla per noi, tranne ciò che fanno tutti i genitori: sei ammalato, ti porta dal dottore. Mai un regalo. Mai una gratificazione. E guai a prendere meno di sei a scuola»). Per la madre una casa-prigione: «Era controllata a vista. Per isolarla non avevamo il telefono e quando l’abbiamo avuto, metteva il lucchetto. Mia madre era orfana, non aveva nessuno. C’era solo la famiglia di mio padre. Ma lui ci ha messo l’uno contro l’altro. L’obiettivo era farla sentire completamente sola».

Ricorda quando da bambino fuggiva per andare dal vicino di casa per chiamare i Carabinieri. O in strada per telefonare a Elisabetta del Telefono Azzurro: «Bastava un gettone e parlavi quanto volevi. Elisabetta per me era una certezza. Chiamavo e lei mi rispondeva sempre. Ho ancora nella mente la sua voce – sorride – Dopo quattro giorni dal fatto ho ricevuto una telefonata: era Elisabetta. L’aveva sentito al telegiornale».


Tanta rabbia e delusione: «È inutile mobilitare il mondo intero quando accade. Dopo è troppo tardi. Quando è morta mia madre, mio padre è scappato. Per quattro giorni c’erano pattuglie ai confini, elicotteri che sorvolavano l’Italia intera e un carabiniere in borghese per scortare me e miei fratelli: non voleva solo staccare la testa a mia madre, e a questo ci è mancato davvero poco, ma ammazzarci tutti. Se avessero fatto la metà di quelle cose solo una settimana prima mia mamma sarebbe ancora viva».

«Dopo ventiquattro anni non è cambiato niente»

La percezione di un mondo capovolto, che attribuisce all’imputato-condannato una serie di diritti, negati invece all’orfano: «Oltre al diritto di mentire e di denigrare la vittima, acquista una serie di benefici assurdi. Da subito gli spetta un avvocato di ufficio e lo psicologo. E chissà quanti ne ha cambiati in questi anni. In carcere ha potuto lavorare e ricevere uno stipendio. L’hanno condannato al risarcimento morale nei nostri confronti, ma sulla carta, perché quei soldi non esistevano. Ha anche il diritto a ricevere una pensione. Io potevo morire di fame e lui in carcere con la pensione».


Racconta il rapporto con i fratelli: «Mia sorella è una seconda mamma per me. Premurosa e protettiva. Ancora oggi capita che mi telefoni per chiedermi se ho mangiato – ride – Ho due nipotini che adoro. Con mio fratello invece – silenzio, gesticola – si apre un altro capitolo – il volto si incupisce – Ha avuto un’infanzia terribile, massacrato fisicamente da mio padre, oltre che psicologicamente. Questo l’ha reso una persona schiva, sempre sulla difensiva. Da anni ha una compagna, ma non ha figli, non li ha mai voluti. Noi tre eravamo molto uniti, ma purtroppo io e mia sorella abbiamo dovuto allontanarci da lui. Quando è morta la mamma è andato fuori di testa. È troppa la rabbia repressa. È una ferita aperta per noi, che un giorno speriamo di guarire». Nei parenti del padre scopre «una famiglia stupenda. Dopo ventisette anni (ventidue dal fatto e cinque della separazione dei genitori) ho incontrato i miei cugini. Non eravamo più i bambini che giocavano in spiaggia, ci siamo ritrovati adulti. Da allora ci sentiamo e frequentiamo regolarmente».


Due anni fa uno di loro si offre di accompagnare Giuseppe in carcere. Voleva incontrare il padre. «L’ultima volta che l’avevo visto era stato alla sentenza definitiva in Cassazione, quando gli hanno dato l’ergastolo. È stato lo psicologo a dirmelo: dovevo chiudere il mio cerchio. Bastavano cinque minuti faccia a faccia. Conosco bene mio padre, il suo sguardo, la sua cattiveria, me li ricordo anche oggi. E così è stato. Ancora lo stesso uomo di allora: totalmente concentrato su sé stesso. Per lui non esistevo. Non siamo mai esistiti – ritmo incalzante, gesticola – Venti minuti di richieste per riscuotere la sua pensione. Ad un certo punto mio cugino gli ha detto: “Ti sei reso conto che c’è qui tuo figlio?” Un leggero scompiglio e con ardire beffardo: “Come stai?” Mia madre non l’ha mai nominata».

«Ho preso coraggio: “Lo sai che mi hai rovinato la vita?” La risposta: “Sì, ma mi sono rovinato anche la mia”»

«Ha iniziato il contrattacco, giocando in difesa, dicendo che era malato, che gli avevamo negato la grazia. Perché cinque-sei anni fa ha avuto la presunzione di chiederla al Presidente della Repubblica – smorfia – Per la prima volta l’ho guardarlo fisso negli occhi: “Tu sai che stai mentendo, perché altrimenti non saresti qui. E se dopo tutti questi anni continui, vuol dire che io e te non abbiamo nulla da dirci”. Si è risentito e ha abbassato lo sguardo. Non era mai successo. Me ne sono andato. Quel giorno alle mie spalle non solo la porta del carcere, ma tante angosce e domande prima irrisolte. Avevo definitivamente chiuso il mio cerchio. Libero e leggero come non sono mai stato».




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