L'ispettrice Pollonara: «Il poliziotto non è solo l’uomo di ferro»
di Lara Minelli, 25/11/2021
L'approfondimento - Inchiesta per Executive Master RCS Academy - Corriere della Sera
Foto: Pexels
Dopo venti minuti di spiegazioni di numeri e procedure per le donne vittime di violenza domestica, la vice ispettrice della Polizia di Stato, Francesca Pollonara, responsabile della Divisione Anticrimine Minori e Vittime Vulnerabili della Questura di Brescia volge lo sguardo in alto e porta una mano al petto. È in quel momento che pensi che la precisa e professionale ispettrice non ti citerà un articolo del cp. Con un tono di voce più basso esorta: «Quando entri in polizia ti dicono che devi diventare un uomo di ferro, ma non è così». Da lì a poco capirai che le tue impressioni erano giuste.
«Prima lavoravo alla Squadra mobile Omicidi e reati contro la persona. Un giorno alle 5 di mattina ricevo una telefonata. Mi ordinano di andare a Brescia per gestire un caso di quadruplice omicidio e occuparmi di tre bambine: un uomo uccide l’ex moglie, l’amico con cui era uscita due volte, la figlia di lei salita dalla Calabria per trovare la mamma e il suo fidanzato. Tenta il suicidio, ma viene fermato da un carabiniere vicino di casa. I due hanno tre figlie. La più grande ha 10 anni – sospira – Nove anni fa, ma lo ricordo come fosse ieri. Il giorno più pesante della mia vita. È stato difficile gestire tante emozioni insieme».
Nello sguardo dell’ispettrice rimane la stessa commozione di quel giorno, continua: «Le piccole vengono affidate allo zio. Chiedono della mamma. La più grande ha visto tutto, ma non ha riconosciuto la madre: “Hanno sparato in faccia ad una persona. Per strada c’era tanto sangue. Ma la mamma quando viene?” Lo zio mi chiede aiuto: sono io che devo dire che quella persona è la mamma. Non me la sento, ma lo zio mi supplica».
«Cosa posso dire a tre bambine che sono state strappate via dalla loro casa in pigiamino e portate in questura? Come dire che la mamma non c’è più?»
«Chiedo alla mia pedagogista di accompagnarmi. Facciamo finta che è una poliziotta che arriva dall’ospedale – sguardo nuovamente in alto, poi per un attimo fisso ad un foglio sulla scrivania – Mi faccio coraggio: “L., la persona che hai visto è la mamma. I dottori hanno fatto tutto il possibile, ma non ce l’ha fatta. È morta. Ad ucciderla è stato il papà”. Ovviamente scoppiano in lacrime e urlano. Ci appartiamo in una piccola stanza al secondo piano – sospira – hanno pianto tutta mattina. E anch’io con loro. Ad un certo punto la ragazzina si avvicina e mi dice: “Ma papà lo devo rivedere?” La rincuoro: “No L., non lo devi rivedere più. Se vorrai, solo quando sarai grande”».
Aumenta di poco il tono di voce, seppur soffoca il nodo alla gola: «Da quel momento non riesco a staccarmi da quelle tre bambine. Loro mi cercano, lo zio mi chiede di passare ogni tanto. E io ci vado. Recupero le loro cose dalla casa incriminata. Chiedo l’autorizzazione al magistrato e riempio quattro valigie: sandali, ciabatte, disegni, diari, libri, zaini, pattini. Ricordo ancora la loro felicità quando le hanno aperte. Quel giorno mi hanno preparato i muffin – sorride – Passa il tempo, arrivano le feste e i compleanni. Lo zio mi invita. Le bambine mi vogliono. Ma sono rapporti che non possono rientrare nel mio ruolo. Sono costretta a dire di no, anche se ho il cuore a pezzi.
Di casi come il loro purtroppo ce ne sono tanti, io non posso diventare il surrogato della mamma che non c’è più. Quando chiudo gli occhi rivedo ancora quelle tre bambine».
«Me le porto nel cuore oggi e così sarà per sempre»
Come ha detto l’ispettrice, «i poliziotti non sono solo uomini di ferro. Noi non possiamo comportarci come tutti gli altri, soprattutto in questa materia. Serve tanto impegno, ma se ci metti anche un po’ di cuore è meglio».
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